L'Intervista Simone Cavagnino: “L’amicizia con Pinuccio Sciola, un onore enorme”

Simone Cavagnino: “L’amicizia con Pinuccio Sciola, un onore enorme”

Cavagnino è oggi tra i più bravi e innovativi giornalisti culturali in Sardegna. Narratore di storie che travalicano il tempo e lo spazio, destinate a rimanere per sempre. Come radici ben salde al terreno

Ci sono passioni che entrano nell’anima dai primi istanti. Simone Cavagnino lo ha compreso presto: era solo un bambino quando veniva a contatto con la musica e con la scrittura.

C’era il jazz, grazie all’influenza del padre (e non solo). C’erano la narrativa, i libri letti voracemente, come se le parole dovessero esser mangiate, assimilate, per esser soffiate sul volto delle persone. Dentro un percorso a tratti intricato, ma ben focalizzato su quale dovesse essere il risultato finale.

Cavagnino è oggi tra i più bravi e innovativi giornalisti culturali in Sardegna. Narratore di storie che travalicano il tempo e lo spazio, destinate a rimanere per sempre. Come radici ben salde al terreno.

Nella sua vita c’è l’amicizia profonda con Pinuccio Sciola, ad esempio. Ci sono le collaborazioni e il rapporto duraturo con Paolo Fresu e Jacopo Cullin. Ma anche i podcast e le tantissime interviste. Viaggiando da Berchidda a Cagliari, da Calagonone a San Giovanni di Sinis, unendo i puntini di un’isola che non smette mai di farsi scoprire.

Partiamo da ciò che unisce: il giornalismo, il jazz e la cultura. Dove nascono queste passioni?

Nasce tutto dal fatto che sono figlio di un pittore e scultore. Avevamo una casa non grandissima, e dunque la mia sala giochi la condividevo con lo studio di mio padre. Non avevo tanti giocattoli. Ma avevo i pennelli, le tele, passavo ore a guardare mio padre. E avevo una collezione di vinili che per me erano dei mondi da scoprire. Avevano un valore enorme. Perdevo ore a leggere i testi, a navigare nei mondi di Herbie Hancock, Miles Davis.. ero un bambino. La predisposizione dunque nasce grazie a mio padre. Viaggiavo molto assieme a lui in tutta la Sardegna. Perciò le mie sale giochi erano le mostre, i cortili, le scuole o i luoghi in cui veniva invitato. Qualche volta mi capitò di incrociare Pinuccio Sciola. Non avrei mai pensato che da grande avrei condiviso con lui una grande amicizia e avrei curato un documentario. Me l’ha chiesto lui. Per me è stato un onore enorme.

Cosa è stato Pinuccio Sciola per te, sia professionalmente che umanamente?

Per me è stato una figura importantissima. Mi ha aiutato in un momento molto complesso. Mi ha dato molto coraggio nell’avviare e proseguire una professione nel campo del giornalismo. All’inizio ero molto scoraggiato. Mi ha dato una grande forza. Per me non è mai morto, c’è sempre. Mi manca molto. Era un grande intellettuale. L’ho conosciuto in viale Fra Ignazio a Cagliari: dovevo andare a lezione, invece venni attratto da alcuni manifesti che annunciavano la sua mostra. Lo conobbi lì e si è instaurato un rapporto fortissimo. Per farti capire la sua grandezza, ho una storia. Un giorno mi ha prestato casa sua per una cena. I miei amici sono arrivati pensando di incontrarlo, ma lui è ritornato solo a fine serata. Gli regalarono un libro, “100 centenari”. Mi piacque tantissimo, non nascosi il mio entusiasmo. Il giorno dopo lui è andato a comprare questo libro per me e scrisse una dedica bellissima. “A Simone, con 100 nonni per 100 anni migliori con le pietre. E tanto affetto”. Era il 7 novembre 2012. Ti dico: per me questo è un regalo meraviglioso. Non era solito abbandonarsi in queste cose. Lo custodisco gelosamente.

Da tuo padre invece cosa hai preso?

Non sono diventato bravo a disegnare. Però ero molto bravo in italiano. Vivevo a Quartu e avevo la fortuna di avere davanti a casa mia una biblioteca. Quindi passavo ore a leggere da bambino, divoravo i libri. Ho scoperto Hemingway, Pirandello, Calvino.. era ed è bellissimo leggere. Forse era figlio di quel periodo, i videogiochi stavano nascendo. Era un altro mondo. Ascoltare musica a quel tempo ti stimolava. Mi ricordo che in edicola facevano la raccolta delle musicasette jazz: c’era questo greatest hits di Charlie Parker e Dizzy Gillespie che mio padre comprò. Questa cassettina l’ho consumata. Mi sentivo dentro il jazz. Grazie a ciò ho iniziato anche a suonare diversi strumenti con un approccio propedeutico a capire la musica.

Ti sei laureato in Giurisprudenza, ma non hai proseguito nell’abilitazione. Cosa è successo nel mentre?

Fin dai 18 anni scrivevo. Facevo cronache sportive. Poi ho conosciuto Antonello Cau, editore e direttore di Infochannel tv. Ho cominciato a collaborare con loro, poi sono arrivato a Jazzit con cui ho fatto una bellissima esperienza. Era il 2010, Cagliari era piena di giovani talenti che si impegnavano. Era bello: ci si confrontava, si scriveva, si condividevano le idee. Poi sono arrivato a Unica Radio dove ho portato un progetto che, capisco, per le radio commerciali era difficile da mandare in onda. Quindi ho conosciuto Riccardo Sgualdini, che mi ha aiutato tantissimo ed è stato una figura fondamentale. Rita Leone invece mi ha aiutato a lavorare sulla voce. E poi le interviste: accendo il microfono, e ci si perde a parlare, a scoprirsi.

La Cagliari di quegli anni come la ricordi?

Era una città molto aperta, che ribolliva. Il quartiere Marina era qualcosa di spettacolare. Forse non tornerà più così. I Marina Cafè Noir fatti lì erano dei festival che ti aiutavano naturalmente a esprimerti. Potevi incontrare gli artisti, ti potevi confrontare. Era un brulicare: a Marina non potevi camminare per strada. Era uno scambio continuo, un miracolo. E poi c’erano i meravigliosi European Jazz Expo fatti alla Fiera. Erano una meraviglia. Il format della Fiera è stato pazzesco. C’era una tabella di eventi enorme, incontravi gli artisti, li conoscevi. Crescere in una città che vede crescere festival importanti e che ti danno possibilità di esprimerti non è da tutti. C’è stato un concatenarsi di condizioni favorevoli che poi c’è stata una grande apertura alla crescita dei giovani in quel periodo.

Il Jazz invece cosa rappresenta per te?

Un genere musicale che mi ha rapito da subito. Quando andavo a Sant’Anna Arresi, al festival di Basilio Sulis, ciò che mi colpiva era questa grande apertura di tutti i musicisti. Dopo un concerto ti ritrovavi a bere e a parlare con loro. Dico sempre che il jazz è un genere molto democratico. Tutti gli strumenti possono dire la loro, possono essere solisti. Tutti sono coinvolti. Quando si crea quella meravigliosa complicità, l’interplay, è meraviglioso. Per me il jazz è la musica del Novecento. Adesso poi vive di contaminazioni costanti, grazie alla globalizzazione.

E cosa lega la Sardegna al jazz?

È una domanda che abbiamo provato ad approfondire con Claudio Loi. Abbiamo indagato sul rapporto tra musica jazz e insularità. Non c’è una vera risposta. Da ciò che ho capito, l’insularità è un valore e non limite. Ti costringe a fare le cose bene. Manca un certo processo osmotico di condivisione con le altre regioni. Abbiamo il mare nel mezzo. Perché è un genere che ha attecchito così bene da noi? Credo per la nostra capacità di accogliere le contaminazioni. Siamo sempre stati pronti a “comprendere” le altre culture.

Chi ha rappresentato e chi rappresenta il jazz nell’isola?

Abbiamo avuto dei ragazzi (Paolo Fresu, Billy Sechi, Massimo Ferra, Massimo Tore, Paolo Carrus) che hanno iniziato a cercarsi, a condividere. Andare a Berchidda era faticoso negli anni ’80. Era molto complesso. Lo stesso Fresu andò ai seminari di Siena Jazz e tutti rimasero stupiti da quel suono, dalla liricità, dalla poeticità che lui riusciva a soffiare sulla tromba. Perché aveva maturato quel suono probabilmente in campagna, suonando nei campi, lui figlio di un agricoltore e pastore. Sicuramente quel tipo di spazialità deriva da quello. Molti gli dicono “Io sento la Sardegna dalla tua tromba”. Non è che lui la vada a mettere. C’è in maniera naturale. Magari è una suggestione per gli altri. Ma ci sono tante meraviglie. Penso a Gavino Murgia che coniuga il canto a tenore con il sassofono. O Paolo Angeli, un altro profondo musicista che definire jazzista è riduttivo. Tutti e tre fanno tanto, non solo jazz. Oggi abbiamo l’esempio fulgido di Daniela Pes. L’ho conosciuta che era ancora una ragazzina, dalla prima volta che l’ho sentita cantare mi sono detto “qui è un altro campionato”. Ma anche come idee, nel suo modulare la voce come uno strumento. Ha raggiunto una sintesi che la sta portando a raggiungere i risultati che merita. È un talento indescrivibile. Siamo solo all’inizio. Abbiamo in tutta la Sardegna musicisti fenomenali.

Hai intervistato tanti artisti. Quali sono quelli che ti hanno colpito?

Sicuramente l’intervista a Alessandro Bergonzoni mi ha cambiato la vita. Ma penso anche a Daniel Pennac, uno scrittore meraviglioso. Dori Ghezzi, Archie Shepp, Vinicio Capossela, Carmen Consoli.. sono davvero tanti. La Consoli umanamente è meravigliosa, oltre che artisticamente. Non bisogna avere il timore di confrontarsi con personalità così forti. Bergonzoni, infatti, ci insegna che siamo tutti studenti. Non professori o studiosi. Ti aiutano a tornare alle radici. Per me sono molto importanti. Dipende molto da come tu ti poni a chi stai intervistando. Se lui ti sta portando verso sentieri interessanti, vai lì, le domande le farai altre volte oppure mai. Ecco, un artista a cui sono legato è Stefano Bollani: è un angelo che suona il pianoforte. È un genio. Devo dire grazie al Time In Jazz che in questi anni mi ha dato fiducia, mi ha permesso di intervistare e conoscere tantissimi artisti da tutto il mondo. Hanno fatto e stanno facendo un lavoro meraviglioso. E da Paolo (Fresu) c’è solo da imparare ogni giorno.

Infine ti chiedo di Jacopo Cullin, con cui collabori da tanto tempo. Come lo descriveresti?

È un amico. L’ho visto la prima volta al Teatro Lirico ad un concerto di Brad Meldhau. Poi l’ho ribeccato a Calagonone Jazz, ero con Pinuccio Sciola. Ci ha uniti, in qualche modo, Pinuccio. Una sera Maria Sciola ha organizzato una cena privata dove ci siamo conosciuti e presi subito. Jacopo è una persona estremamente sensibile, intelligente. La sua ironia è molto sottile. Ha la dote di leggere le persone, di comprenderle. È innata la sua comicità. Ha studiato tanto, viaggiato tanto, si è confrontato tanto. È una persona che si mette spesso in discussione, è un professionista esemplare. Dietro gli spettacoli come i suoi c’è una serietà e una programmazione pazzesca. Non sempre ho incontrato degli artisti che si sono rivelati delle persone dello stesso livello.

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